Luigi Natoli, I Beati Paoli, Palermo, Flaccovio, 2003,
756 pp., ISBN 88-7804-235-8.
“In
Sicilia, I Beati Paoli è ancor oggi l'unico libro che
molta
gente del popolo abbia letto nel corso della sua vita”
R. La
Duca, Introduzione
Parte prima (ove l'autore sproloquia di incipit)
“In principio era il verbo”. Questo è un inizio memorabile.
O “Nel mezzo del cammin di nostra vita”.
Oppure, ancora, “Robert Cohn era stato un tempo campione di pugilato di
Princeton, categoria pesi medi”.
Il primo è ieratico e misterioso.
Il secondo è quanto di più geniale possa esistere, perché spinge il
lettore a immaginarsi un inizio in medias res, quando invece la vicenda è
narrata in ordine cronologico (la vicenda, s'intende, narrata nel poema; che
però presuppone un'altra vicenda, quella biografica dell'autore, iniziata ben
prima).
Il terzo è essenziale ed incisivo, rudemente giornalistico, e spiega
subito al lettore di che tipo di umanità si tratterà nel libro, che attitudini
hanno i protagonisti e quindi, in sostanza, se per lui valga la pena di
leggerlo o meno.
(Per inciso: sì, ne vale la pena)
Gli incipit sono importanti.
Quindi diffidate, vi prego diffidate, sempre diffidate, da un libro che
inizia con una versione camuffata del “C'era una volta” di favolistica memoria.
Diffidate, ma leggetelo. Esiste sempre un buon motivo per leggere un libro, a
meno che non sia l'autobiografia di Gigi D'Alessio scritta manu propria o il
Mein Kampf.
Ritornando agli incipit rivelatori, ecco quello de I Beati
Paoli: «La sera del 12 febbraio 1698, due ore prima dell'Avemaria, la folla
del Palazzo Reale di Palermo si empiva di una folla immensa, ondeggiante,
varia, che si accalcava dietro le file della fanteria spagnola, schierata fra i
due bastioni costruiti dal cardinale Trivulzio e il monumento di re Filippo V».
...eccetera, aggiungo, non senza un sospiro di sollievo. Intendiamoci:
chi scrive ama alla follia, per vari motivi, il libro che sta recensendo; ma,
come ogni singolo capo di governo della storia italiana da quando è stato
scoperto che dormire dentro una grotta era più confortevole che tentare di
farlo all'adiaccio, è un uomo onesto (sì, lo so: battuta scontata). E, in tutta
onestà, bisogna ammettere che i Beati Paoli è un libro mediocre.
Basta rileggere l'incipit: non hai cominciato a leggere che da un paio di
secondi e ti chiedi “Quando diamine incontrerò un punto fermo?”. E poi,
ogni scrittore, perfino il peggiore degli scrittori, sa che gli aggettivi vanno
dosati con un'attitudine che è riduttivo definire parca. Natoli ne usa tre di
fila con indifferenza zen. Ad Hemingway o Carver sarebbero bastati per scrivere
un libro di 237 pagine.
Quindi, nell'incipit de i Beati Paoli sono presenti almeno due
motivi di diffidenza. Se ne aggiunge un terzo, di cui Natoli è incolpevole:
diffidate da libri cui è preposta un'introduzione di Umberto Eco; è
notoriamente un intellettuale di prim'ordine, ma rivela anzitempo le trame con
una noncuranza mefistotelica.
Parte seconda (ove l'autore espone brevemente la trama)
Non sempre chi parte da presupposti notevoli giunge a conclusioni
adeguatamente esaltanti. Chi può negare che I tre moschettieri di Dumas
padre e I Promessi Sposi di Manzoni figlio (illegittimo) siano romanzi
degni di nota?
Ebbene: sebbene i Beati Paoli sia una mistura, in salsa siciliana,
di suggestioni provenienti da entrambi i suddetti romanzi, il risultato non è
esaltante.
Per farla breve, la vicenda inizia con un cadetto cattivo che usurpa il
titolo aristocratico al nipote, orfano di un Duca tanto generoso quanto tendente
ad ingravidare le donne che gli capitano a tiro.
Dopo quindici anni, il suddetto usurpatore è un notabile del Regno di
Sicilia (in pieno trambusto per le conseguenze della guerra di successione),
vedovo, padre di una bellissima fanciulla confinata in monastero (come usava
fare a quei tempi con le nobili rampolle non ancora in età da marito) e
sposatosi per la seconda volta.
Entra in scena un fiero avventuriero, guascone e valoroso, recatosi a
Palermo per sete di gloria ed avventure. Presta la propria spada al duca
cattivo, minacciato dai misteriosi, e apparentemente onnipotenti, Beati Paoli,
sicarii o giustizieri fantasmagorici, adusi ad agire nelle tenebre e
inafferrabili: essi hanno salvato il legittimo titolare del titolo e vogliono
rimetterlo al suo posto. L'avventuriero concupisce la moglie del cattivo. Lei
ricambia. Lui lascia il servizio perché è troppo nobile d'animo per le bassezze
fedifraghe. Lei gli diventa nemica per troppo amore (sospiro...).
Dopo una serie di trame, sottotrame, intrecci e coincidenze da fare
dubitare anche l'autore del racconto delle Mille e una notte ambientato a
Serendip, il nobile e scalcinato avventuriero scopre di essere figlio naturale
del fratello buono, diventa duca al posto del fratellastro, nel frattempo
riinsediatosi al posto dello zio ma dimostratosi indegno e meschino, e sposa la
fanciulla pura e casta, figlia del cattivo. Non prima di svariati consessi
carnali con la moglie (a quel punto vedova) del medesimo cattivo, tanto
innamorata del bel protagonista da arrivare a suicidarsi per la sua felicità.
Tutto ciò avviene grazie all'ausilio dei Beati Paoli, e dopo ettolitri di
sorprese che spingono il lettore a pronunciare vari mmm seguiti da
nessun punto esclamativo.
Natoli ci tiene a farci sapere che il frutto del matrimonio tra il Bello
e Valoroso & la Bella e Casta porterà il nome della donna immolatasi per
permettere la felicità dei due giovani.
Chi legge, si sarà accorto che la vicenda non è quello che si può
definire una serie di colpi di scena concatenati con un rigore logico al di là
dei cui gangli non possa scorgersi la pretestuosità, finalizzata allo sviluppo
della trama, di certe situazioni. Per dirla con semplicità: si ha come
l'impressione che Natoli avesse chiaro in mente come iniziare e come terminare il
romanzo, di che atmosfera pervaderlo, tutta una serie di scene, perfino, ma che
abbia poco felicemente incollato questi elementi tra di loro, utilizzando tutta
una serie di trovate estemporanee. Ragionamento, questo, corroborato dal fatto
che i Beati Cavoli è un romanzo d'appendice, pubblicato sul Giornale di
Sicilia in 239 puntate tra il 1909 e il 1910.
Parte terza (ove l'autore si lascia andare ad alcune considerazioni)
Chi scrive, ha udito una volta un suo professore di Letteratura Italiana
profferire le seguenti parole: “Se un libro vende troppe copie, non vale la
pena di comprarlo”.
Chi scrive, ritiene tali ragionamenti insensati. Non solo per la spocchia
che da essi trapela, ma per la loro intrinseca mancanza di logica: i fenomeni
editoriali vanno analizzati con lucidità e senza classismi sterili e,
francamente, antipatici.
Bisogna leggere i libri di Federico Moccia per scoprire quanto Federico
Moccia sia uno scrittore ruffiano e mediocre? No: basta informarsi in giro,
raccogliere opinioni, chiedere a qualcuno che ha letto almeno un libro di F.M.,
per capire che il successo editoriale dei suoi libri è dovuto ad un'azzeccata
scelta di target e di argomenti che detto target ritiene interessanti. Se avete
più di 13 anni o, nel caso siate irriparabilmente affetti dal complesso
sessuale di James Barrie (che qui inauguro), più di 17, non è il caso che
compriate libri di F.M.
Per ritornare all'argomento trattato: perché il libro i Beati Paoli
di Luigi Natoli ha avuto un tale successo? Presto detto: il romanzo tratta
della città di Palermo, così com'era all'epoca dei fatti, con una tale
accuratezza, ricchezza di dettagli, con una tale minuziosità rivolta a
descrivere abitudini e pratiche dei suoi abitanti, che per un Palermitano è
inammissibile non averlo letto. L'affermazione di Rosario La Duca (curatore
delle preziose note di questa edizione) scelta come epigrafe è
incontrovertibilmente vera. Non credo che sulle rive della Dora Baltea o del
Mincio vivano molti possessori di una copia del libro. I Beati Paoli
parla di Palermo e dei palermitani, ma anche di Sicilia e dei siciliani.
Descrive luoghi, certo, ma anche quelle peculiarità che, qualora portate
all'eccesso, sono i tratti negativi del carattere nazionale siciliano:
la giustizia privata che sopperisce alle mancanze delle istituzioni, l'omertà,
la cerimoniosità di certi atteggiamenti, derivante dal sussiego spagnolo; la
muta legge dei vicoli stretti e tortuosi dei centri storici isolani; il codice
comportamentale da seguire nelle patrie carceri. Basti pensare che uno di quei
siciliani che hanno letto soltanto questo libro nel corso della propria vita è,
almeno verosimilmente, Salvatore Riina, che in un confronto con Gaspare Mutolo
ha minacciato il pentito augurandogli di fare la stessa fine di Matteo Lo Vecchio,
uno dei protagonisti del libro, di mestiere birro (eccetto rimangiarsi
tutto quando il giudice gli ha chiesto delucidazioni, sostenendo che il libro
era una lettura che i detenuti siciliani giudicavano identitaria, ma che lui
aveva smesso di leggerlo prima di scoprire che Matteo Lo Vecchio viene ucciso
da una schioppettata).
E proprio questo aneddoto è significativo di quanto il romanzo, nel bene
e nel male, al di là di ogni insito valore letterario, sia divenuto, almeno
regionalmente, importante: I Beati Paoli non è un romanzo storico solo
per via dell'ambientazione, ma anche perché, e forse, addirittura, soprattutto
perché, è esso stesso diventato storia: un pezzo di immaginario collettivo,
trasversale rispetto al ceto e al grado di istruzione di chi lo legge, un
contenitore di codici linguistici, di figure e mitologie, condivisi da un
intero popolo.
Dan Skorsky
Nessun commento:
Posta un commento