Danilo Dolci, Racconti siciliani, Palermo, Sellerio editore, 2008, 417 pp., ISBN
88-389-2307-8.
Danilo
Dolci scrive la Sicilia. Non nel senso che la interpreta restituendocene
l’immagine attraverso il filtro dei suoi occhi o della sua interpretazione
personale. No. È come se lui la facesse parlare senza intermediari, così, in
forma diretta con tutte le sue disperazioni, con la povertà e la fame; con
quelle strade «miserabili e putride» descritte da Carlo Levi ne Le parole sono pietre. La Sicilia che
Dolci ci racconta non può essere abbellita, nemmeno dal punto di vista
linguistico; le voci dei protagonisti vengono fedelmente registrate così come
sono, senza intenti estetizzanti. L’esito non è scontato perché Dolci è
siciliano solo d’adozione, è un settentrionale che per vivere e raccontare la
Sicilia, si fa – come dice, in più occasioni, lo storico Francesco Renda –
meridionale tra i meridionali, siciliano tra i siciliani.
I suoi
personaggi sono braccianti, casalinghe, falegnami, ma anche madri senza latte e
bambini denutriti. Gente comune che vive di espedienti, che cerca nella terra
una disperata sopravvivenza, quella terra che regala l’erba da mangiare a
Vincenzo, quando manca il lavoro e non ci sono soldi per comprare altro. Questa
Sicilia dei racconti di Dolci è un universo ricco di simboli: un mondo
parallelo dove ogni spiegazione alle grandi domande della vita è mutuata dai
campi. Le stelle sono come le vacche che «quando aggiorna si ritirano sempre»
[p.23] e la luna è fatta di cielo e «il cielo di fumo che si fa in terra e è
salito» [ibi]. Volendo farne un’analisi scientifica, il tema è quello annoso
della contrapposizione tra la cultura prodotta
dalle classi popolari e la cultura imposta
alle classi popolari e della tradizionale questione: se e come sia possibile
rintracciare una forma di circolazione tra i due livelli. Nel dibattito tra
storici e antropologi, tutt’oggi attuale, si inserisce il dualismo tra oralità
e scrittura che ci riporta inevitabilmente agli studi condotti da Mandrou e da
Bolème, alla creatività popolare, ma anche a Rabelais, a Bacthin e al
carnevale. In tal senso i protagonisti dei racconti siciliani di Dolci,
richiamano inevitabilmente alla mente anche Menocchio: il mugnaio friulano
descritto da Ginzbourg ne Il formaggio e
i vermi per il quale il caos è identificabile con una massa simile al
formaggio dentro cui nascono gli angeli e Dio - per volontà della Santissima
Maestà - proprio come dal prodotto gastronomico nascono i vermi.
Il
mondo parallelo cerca una definizione di sé alternativa, quando non addirittura
in aperta contrapposizione, a quello ufficiale. È il caso di Vincenzo,
condannato a 4 anni e 20 giorni di reclusione per aver rubato due mazzi d’erba.
Perché la Sicilia degli anni ‘50 è quella della riforma agraria e dei decreti
Gullo, del separatismo, dell’occupazione delle terre e degli omicidi dei
sindacalisti più rappresentativi di quelle lotte contadine: Accursio Miraglia,
Placido Rizzotto, Salvatore Carnevale, solo per citarne alcuni. Eppure da
questo mondo, pur condividendone le istanze e le rivendicazioni, Dolci si
discosta, scegliendo una via diversa alla seppur necessaria rivoluzione: gli
scioperi della fame (digiuni individuali o collettivi) come arma nonviolenta,
perché – come il titolo di un’altra sua opera fondamentale – bisogna Fare presto (e bene) perché si muore; o,
ancora, lo sciopero alla rovescia causa di carcerazione e processo, ma anche di
sostegno e solidarietà da parte di intellettuali
del calibro di Erich Fromm, Betrand Russell e Jean-Paul Sartre. Avversato dalla
Chiesa del Cardinale Ruffini, tacciato come eccentrico dalla sinistra
tradizionale, la sua “eresia” diventa prassi sociale e il suo dare voce alla
gente non prevede un ammaestramento, o peggio, un tentativo, seppur minimo di
acculturazione, ma solo una profonda empatia che l’autore – sollecitato nella
stesura di questa raccolta da Italo Calvino – mostra con il profondo legame che
nella sua vita hanno il pensare e l’agire. Secondo Dolci, infatti, per
conoscere i poveri e dar loro una voce bisogna vivere come loro. È in
quest’ottica che l’autore ha scritto Racconti
siciliani ed è in quest’ottica che il lettore deve accogliere il libro,
documento preziosissimo di un passato più che mai attuale. In un’epoca
complessa e turbinosa, in cui le politiche di austerity, mascherate da
imprescindibile necessità, aumentano il divario tra ricchi e poveri, creando
nuove sacche di marginalità e di stenti, una rilettura di Dolci appare
imprescindibile per comprendere la simbologia del disagio, della ghettizzazione
e della paura.
Alessandra Mangano
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