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sabato 5 ottobre 2013

Più lontano ancora

Jonathan Franzen, Più lontano ancora, Einaudi, Torino, 2012, 300 pp., ISBN 978-88-06-21324-4.

Un viaggio lontano, più lontano ancora, alla riscoperta di sé. Il bisogno/desiderio di allontanarsi da un mondo sempre più rumoroso, assordante e invadente. Facebook, Twitter, l’assalto alle vite altrui, voci gridate dentro ai telefonini, esibizione dei sentimenti. Si può scappare portando con sé pochissimi oggetti, indispensabili alla sopravvivenza, e le ceneri del grande David Foster Wallace scrittore di straordinario talento ma, prima di tutto, amico. E lì, su un’isola del Pacifico meridionale, a ottocento chilometri dalla costa del Cile centrale, cominciare un’avventura piuttosto insolita che ha come obiettivo quello di combattere la noia quotidiana e di provare a capire le ragioni della vita, dei propri fallimenti, della morte e del suicidio, ma anche ripercorrere le tappe dei primi romanzi e analizzare il contesto nel quale sono stati prodotti. Le correzioni, ad esempio, nasce da un momento di estrema confusione tanto nella scrittura, quanto nella vita privata di Franzen. Affinché il romanzo possa vedere la luce, è necessario che lo scrittore diventi un’altra persona e che si liberi dalla depressione, dalla vergogna e dai sensi di colpa.
Nascono così le 21 riflessioni di Franzen. Un libro insolito, eterogeneo, versatile che ci riguarda tutti perché non è a noi che parla, ma di noi, del nostro stare nel tortuoso e complesso mondo contemporaneo; della natura e del rispetto delle altre specie; dell’amicizia e della sconfitta, della fine dei sentimenti; ma anche dei libri – dai racconti di Alice Munro, alle pagine di Christina Stead, Donald Antrim, Frank Wedekind, Dostoevskij – di cui Franzen ci regala delle straordinarie recensioni.
Più lontano ancora è anche un libro sulla scrittura, o meglio, su come essere scrittori oggi, ai tempi dei sentimenti on-line. Scrivere significa essere e divenire [p. 116]: essere leali con se stessi e divenire sinceri. Questa fuga, che Franzen inizia dopo la tragica morte del suo grande amico Wallace, spinge lo scrittore ad affrontare, finalmente, sentimenti che fino a quel momento aveva preferito tenere chiusi dentro un cassetto. E, in fondo, cos’è scrivere se non questo tirare fuori la parte più nascosta di noi stessi? Veicolare pensieri e sentimenti? Ritornare all’amore reale? Perché – e questo è il sottile fil rouge che unisce le 21 riflessioni del testo – il mondo di Facebook ha sostituito all’amore reale il concetto più vile e narcisistico del piacere. La maggior parte delle persone, oggi, è instancabilmente dedita a un disperato desiderio di piacere, anche a costo di sacrificare la propria integrità. [p. 7] Così, mentre siamo indaffarati a recitare il nostro film, finiamo per perdere di vista quella vita vera in cui è impossibile piacere sempre. Perché nella vita vera siamo sicuramente meno appariscenti dell’ultima foto sul profilo e, forse, un po’ meno brillanti del nostro ultimo stato sulla bacheca ma, proprio per questo, molto più veri e autentici. Il problema è che spesso è proprio questa autenticità a paralizzarci e spaventarci perché «il vero io di un individuo non potrà mai piacer[e] da cima a fondo»[p. 8]. Dunque, l’amore spaventa la tecnologia perché ha il potere di smascherare la menzogna.
Scrivere in questo contesto diventa, quindi, un esercizio estremamente difficile e a volte perfino opprimente: sostituire alla pagina web del nostro social network preferito un foglio bianco, significa, infatti, accettare di passare dall’altra parte della barricata: abbandonare il sentiero dell’apparenza per entrare in quello più complesso e articolato del confronto con noi stessi e con la nostra mediocrità, col nostro non detto, col vissuto che porta con sé gli innumerevoli errori, le paure, le frustrazioni, le ansie. Mettersi a nudo può essere catastrofico, oppure, al contrario, può generare capolavori. Le opere d’arte nascono quando l’uomo smette di apparire forte e inizia a piegarsi sotto la mole violentemente feroce della paura della vita e del timore della morte; quando, cioè, ritorniamo ad essere umani.
Con questo libro, Franzen ci regala il suo ennesimo capolavoro. Riflettendo sul mondo e sulle sue cose, ci restituisce la genuinità della vita e dei sentimenti. Ognuno di noi avrebbe bisogno di trascorrere un po’ di tempo su quell’isola sperduta del Pacifico. Ma se non riuscissimo a farlo, almeno una volta nella vita, questo libro è qui per ricordarci che non occorre scappare dal rumore per ritrovare silenzio ed equilibrio. Basta soltanto smettere di aver paura di essere noi stessi.


Alessandra Mangano




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